Articolo pubblicato sulla rivista Vivere lo yoga n° 78, dicembre 2017 – gennaio 2018
Nel ciclo delle fioriture del femminile, i kleśa, ovvero le afflizioni, hanno un ruolo preciso, in quanto fungono da ostacoli al percorso dello yoga: yogaś cittavṛttinirodhaḥ è definito infatti come metodo per un “arresto definitivo del vorticoso plesso delle cognizioni” (Squarcini, Yoga Sūtra di Patañjali, 2015). Questo aspetto, nel testo di riferimento del 320-370 AD, è ancora sorprendentemente attuale. Il rigore delle scelte totalizzanti degli asceti di allora però non è certo paragonabile allo yoga di oggi. Bensì, sarà possibile intraprendere dei piccoli passi nella giusta direzione, anche quando si vuole semplicemente pacificare la mente mediante la pratica dello yoga.
Come spiegato precedentemente (n. 76 della rivista), i mezzi dello yoga sono: una pratica assidua senza interruzione, per lungo periodo, con fervore (abhyāsa) e distacco interiore (vairāgya). Questo vale soprattutto per una mente già sufficientemente sāttvica, cioè equilibrata.
Per il principiante che ha invece una mente attiva, rivolta ancora verso l’esterno e sotto l’influenza dei guṇa rajas (attività, fuoco, passione) e tamas (inerzia, passività, oscurità) la qualità sāttvica si potrà sviluppare con il kriyā –yoga: tapaḥ [pratica -ascetica- che brucia le impurità], svādhyāya,[lo studio e la lettera dei testi], Īśvara-praṇidhāna [l’abbandono a Īśvara]. (Edwin Bryant, The Yoga Sūtras of Patañjali, N.Y. 2019, p. 168-176).
Il cammino però è lungo e insidioso, ritornando agli impedimenti delineati da Patañjali nel cammino della liberazione. E come si può affrontare e superare la sofferenza umana? Domande antiche, le cui risposte sono attualmente ancora pertinenti.
Il kleśa sono cinque: il primo, avidyā, il non vedere come stanno le cose, è di fondamentale importanza; gli altri quattro sono delle conseguenze. È la negazione di vidyā, la cui radice vid ha tanti significati: “essere, stare, perdurare, come nei Veda, una verità che rimane costantemente senza limiti temporali o spaziali nonostante il muoversi degli eventi; […] vuol dire anche conoscere, riflettere e ponderare costantemente su ciò che è visibile e su ciò che non è visibile, su ciò che è e su ciò che non è; ma anche narrare, essere vivi, principio vivente che dimora in tutti gli esseri viventi grazie a cui e per cui gli esseri viventi possono dirsi viventi”, (Gianni Pellegrini, I Veda, Roma 8-4-17).
Vimala Thakar spiega a riguardo: “Quando non c’è l’identificazione con il corpo e la coscienza è libera, allora l’essenza della vita non è la struttura fisica e i suoi movimenti di nascita e di morte…è qualcosa di qualitativamente diversa, allora si sviluppa vidyā, la conoscenza di sé. ” (Vimala Thakar , Glimpses of Raja Yoga, p. 62).
Asmitā, ‘l’io sono’, il secondo kleśa e ostacolo lungo il percorso, si verifica quando l’ego, dominato da un tempo psicologico, predomina sull’essenza dell’essere. La sofferenza consiste nell’identificarsi con gli eventi della vita. Così come il corpo biologico ha bisogno di essere protetto e preservato per sopravvivere, se gli stessi meccanismi di protezione e di difesa vengono applicati al senso di “io” si crea sofferenza. In questo caso, gli eventi non vengono percepiti per quello che sono, ma vengono visti attraverso degli ‘occhiali’ appartenenti all’ ‘io sono”. L’ego immagina la mente e il corpo come il vero sé, invece di semplici strumenti per conoscere e percepire il mondo.
Rāga è la passione, la forza dell’attrazione e il desiderio di ripetere esperienze di piacere intorno a cui gravita e da cui è condizionata la coscienza egoica, che crea pertanto attaccamento e sofferenza.
Dveṣa è l’altra faccia della stessa medaglia e cioè il desiderio di evitare il dispiacere, il dolore, la resistenza, la rabbia, la frustrazione, che diventa un’avversione.
Attaccamento o avversione a qualcosa sono causati da memorie positive o negative di quel qualcosa. Ma quando si capisce che sono entrambi sempre presenti, allora si può espandere la coscienza per coglierne l’insieme.
Abhiniveśāḥ è l’ultimo kleśa che ha a che fare proprio con l’attaccamento alla vita, come un’ossessione al proprio corpo, ma anche ai propri condizionamenti.
Nelle fioriture del femminile non è difficile commettere questo tipo di confusione soprattutto quando il terreno trema nelle tante transizioni psico-fisiche che le donne devono affrontare, a livello dell’involucro fisico – annamaya-kośa e delle dovute ripercussioni negli altri l’involucri: dell’energia – pranomaya-kośa, della mente – manomaya-kośa e del discernimento intuitivo – vijñānamaya-kośa.
Dal fiore al frutto
L’esempio più eclatante di tutto ciò si trova nei momenti di dolore come nelle doglie da parto. La transizione in questo caso è tra il bambino, immaginato, dentro e la sua nascita. L’apertura del collo dell’utero, in genere chiuso, deve aprirsi da zero a 9-10 centimetri. Un passaggio doloroso carico di valenze di ogni tipo, ma è graduale ed è un sistema perfetto creato dalla natura assolutamente sopportabile. Tuttavia, in agguato c’è sempre abhiniveśāḥ, la paura… la paura della morte insieme alla nascita.
Si cerca di attenuare il dolore…come? Tramite il ‘triangolo’ potente ed efficace di posizioni, respirazione e attitudine mentale. La consapevolezza durante tutto il tragitto permette di esserci nel qui ed ora: con il bambino che sta travagliando, la respirazione che cambia e che si può modificare e l’espansione della coscienza. Concentrarsi solo sul dolore lo amplifica, si mette in moto asmitā, ‘io sono miserevole’. Al contrario, si diminuisce la sofferenza pensando a tutte le milioni di donne che hanno sempre partorito, oppure al bambino che partecipa attivamente. L’attitudine mentale è centrata sulla pratica meditativa, dell’essere un testimone – antar mouna, con distacco, senza agire su quello che si osserva ma semplicemente prendendone coscienza e lasciando andare qualsiasi contenuto della mente possa emergere. Togliendo asmitā si sposta l’accento sulla vita che passa attraverso di noi, come ci insegna vidyā, la conoscenza del principio vivente di tutti gli essere umani.
La nascita della madre e del figlio diventa una meditazione coscienziale che non si dimentica. Darà una profonda soddisfazione, un’inaspettata nuova forza alla neo mamma e un eccellente avvio al nascituro.
Dal bocciolo al fiore
Nel periodo della fertilità, che si alterna ciclicamente con la purificazione mensile, le giovani debbono affrontare un altra transizione-sfida: quella tra l’annuncio, spesso in forma di disagio, della mestruazione imminente e il suo inizio. Quando ci si identifica solo con il dolore, come quando si colgono solo i disagi, subentra dveṣa, l’avversione, il desidero di evitare lo stesso ciclo mestruale: “speriamo che non mi venga questo weekend, ho una festa!” Subentra poi avidyā, perché si confonde l’effimero con l’eterno, senza cogliere l’insieme della vita che passa in lei attraverso il dono della sua fertilità.
Dal frutto al seme
I cambiamenti ormonali della transizione della ‘perimenopausa’ provocano una vera e propria sfida, quando la donna vi arriva avendo accumulato troppo stress e fatica. Nelle tante occasioni, ogni mese, per circa 480-500 volte durante la sua vita fertile, il suo corpo le annunciava, con dei segnali, se c’erano delle aree conflittuali nella sua vita da risolvere. La purificazione mensile allora si trasformava da solo fisiologica ad emotiva e insieme al suo ‘sapere lunare’ diventava una grande risorsa.
Asmitā diminuisce di intensità quando diventano consapevoli i propri condizionamenti, come la paura dell’invecchiamento, una volta stabilita la menopausa, il timore di non essere più attraente quando il ciclo mensile cessa, non si è più ‘fertile’ dal punto di vista fisiologico e arrivano i capelli bianchi. Bisogna cambiare ‘occhiali’, accettando il dono della vita che prende tante forme in base al suo scorrere, sviluppando vidyā per abbattere avidyā.
Questa trasformazione di ottica interiore si può facilitare, con il superamento dei kleśa, attraverso una pratica assidua, senza interruzione per un lungo periodo, con fervore (abhyāsa) e con distacco interiore (vairāgya), con il kriyā –yoga (YS II.1) e con la meditazione (YS II.11) in modo da eliminarne gli effetti.
Tutti inviti ad una buona pratica per tutta la vita.